Testo di Martina Tolaro
<<… E poi è anche simpatico>> disse Sasha.
<<Ma si, sembra quasi che stia sorridendo>> risposi osservando la scultura.
Mi meravigliai di come un messaggio così forte, non mi avesse destato alcun turbamento, anzi, lo trovavo persino ludico. L’atteggiamento ironico, il suo mezzo sorriso era in antitesi con lo stato a cui appartiene: una testa di maiale mozzata. Lo svellimento del cranio di un corpo anatomico, gesto estremo nella storicità dell’uomo, che rimanda al senso più atavico di violenza e minaccia <<Ti privo di identità, di ragione, ti mozzo il capo e ti privo di tutto>> immagino abbia pensato re Sancho Ramìnez mentre tagliava le teste ai Mori, in onore della vittoria ad Alcoraz nel 1096; ma anche di purificazione come avveniva nelle religioni antiche: il sacrificio di un animale o di un essere umano come rito benefico, retaggio di uno sciamanismo, prima dell'era cristiana, dove il mito si confondeva con la ragione e il rito con l'espressione dei sapienti. Nell’antica Grecia i misteri di Eleusi raccontano che il maiale costituiva l’offerta sacrificale alla dea Demetra, nelle civiltà fenice era simbolo catartico e atto propiziatorio. Ab ovo, il maiale è un animale sacro anche per molte civiltà asiatiche e nel buddhismo tibetano è simbolo di fertilità e di ricchezza. Rimane, dagli albori dell’umanità ad oggi, un gesto assoluto nonostante l'organizzazione delle comunità mediante le leggi. In Sicilia l’uccisione di un animale e l’asportazione del capo sono intesi come un gesto intimidatorio, un avvertimento di minaccia appartenente al codice mafioso. È interessante come un unico gesto possa toccare e rappresentare i due antipodi dell’esistenza: l’amore e l’odio, il bene e il male. In quest’occasione d’arte essi si fondono in un'unica lotta, sono guerrieri dello stesso fronte - il male al servizio del bene - entrambi contro un nemico sagace, brutale nel suo silenzio. Un nemico, o meglio, IL nemico dei nostri tempi, che rallenta e ossida le menti: la non-conoscenza, l’ignoranza di ciò che avviene nel nostro territorio, la noia del non-pensante. Ecco come, un atto così antico e trivialmente istintivo, si fa attuale e concettuale: il taglio della testa - sede dell’intelletto, che porta all’assenza di pensiero, di capacità, di identità - allusione a diverse realtà contemporanee, al nostro sistema d’istruzione tagliato e debilitato, al buco generazionale che accomuna oggi i giovani destinati all’incapacità, alla disoccupazione, alla non identità professionale. Le teste mozzate dallo Stato:
“La libertà di pensare è anche la libertà di morire. Mi attende una nuova scoperta anche se non potrò commentarla.”
Ricordiamo tutti, noi giovani in primis, le parole disilluse e agghiaccianti, scritte da Norman Zarcone, studente suicida di 27 anni della facoltà di Filosofia di Palermo. E di teste mozzate ce ne sono tante oggi giorno, aldilà del comportamento mafioso...
Quando andai a Scicli, per visitare lo studio di Sasha e guardare le opere, notai che le sculture erano riprodotte in serie, ognuna di esse uguale all’altra. Erano immobili, mute, refrattarie. Tutte con lo stesso sorriso beffardo, quasi voglia esorcizzare l’atto violento di cui sono vittime. Questa serialità mi inquietò molto: esse sprigionavano un senso di impersonalità disarmante, di aridità mentale, di impossibilità comunicativa - che quasi immaginavo fossero uomini trasformati in porci di gesso da una maga Circe - ed ero curiosa di vedere come la loro evidente conformità estetica, nei giorni successivi, si sarebbe trasfigurata e diversificata prendendo parola, identità. Come sistemi frattali all’interno di un caotico insieme geometrico, come onde entropiche di un fenomeno fisico, avrebbero preso ognuna un proprio verso, una propria espressione, un proprio linguaggio, una propria storia. Ed ecco come, ai miei occhi, l’enunciato scultoreo si fa sempre più familiare: la fisionomia del suino, l’espressione statica, mi rimandano alla mia realtà a volte immobile, muta e refrattaria anch’essa. Può l’arte vivificare una pietra? Può condurla alla sensibilizzazione, a uno stato di nobiltà spirituale? Può l’arte vivificare un uomo? Una società?
“Ed essi usciti dai corpi degli uomini, entrarono in quelli dei porci, ed ecco che tutta la mandria si precipitò dal dirupo nel mare e perì nei flutti”
Matteo 8,28-34.
Entrando nell’opera e immedesimandomi nel capo mozzato di quell’animale pensai: <<Lo stato attuale di quelle sculture in fondo ci appartiene. Nasciamo tutti così, muti e immobili>> chi ci redime da questa condizione è il linguaggio, la comunicazione. Il bambino apprende e cresce tramite l’educazione al linguaggio. Ciò che provoca il passaggio, dalla prima organizzazione mentale alla maturità, è il pervenire del soggetto alla comunicazione, con la conseguente scomparsa di quelle caratteristiche peculiari del primo periodo della vita mentale: l’assenza di distinzione tra spirito e materia, tra soggetto e oggetto, tra essere animato e inanimato, tra vita e morte. Dunque è il linguaggio che ci dà consapevolezza spaziale, temporale ed esistenziale. Come dei bambini, quelle “teste di maiale”, sono in attesa di educazione: verranno irradiate dal linguaggio artistico e noi spettatori daremo udienza ad esse, trasformandoci anche noi da osservatori a pensanti e agenti, perché l’arte se non induce alla riflessione, non ha motivo di esistere. Da qui nasce un nuovo mondo, una nuova intenzione di fare arte, che invoglia la mobilitazione della coscienza pubblica, invita alla partecipazione, all’attivismo di ogni individuo e alla collaborazione creativa. Intendiamo così l'arte sociale: un linguaggio visuale che affronti con chiarezza le problematiche esistenziali, ambientali, razziali, comunitarie. Un sistema di norme trasformazionali dettate e scaturite dall’arte, capace di organizzare un cyber-spazio sociale entro il quale, come direbbe Pierre Lévy, l’intelligenza collettiva prende il posto dell’intelligenza individuale.