sasha vinci


Testo di Leonardo Caffo

Hai avuto [anche troppo] tempo per dormire” Il libro tibetano dei morti

L’arte del possibile. No: perché se è arte è già “il possibile” e tutto ciò che è possibile, e dunque non realizzato ma realizzabile, è già in un qualche senso artistico. Artistico perché arte è anticipazione di strutture ancora non realizzate, ovvero produzione di varchi: un giorno il mondo potrebbe essere così, talvolta dovrebbe, in casi più inesorabili addirittura sarà. L’arte dunque è un performativo. In principio era la modalità, in principio con Aristotele ovviamente: il possibile non è necessario, ma sopratutto non è contingente - qualcosa che c’è, adesso e qui, ma che potrebbe non esserci. E certo: non è neanche impossibile, ovvero è una spinta (non lo vedete che c’è una direzione non ancora intrapresa?). Il contemporaneo non esiste perché il tempo passa, ciò che è di oggi sarà di ieri. Ciò che esiste è l’attuale, l’istante che dimostra, che non passa perché non appartiene al passato ed è “presente”. Presente perché è un regalo (“present”, infatti) a coloro che hanno la possibilità di starci, di esserci, di pensarci, di dire. L’arte contemporanea in realtà è attuale: racconta di un presente in cui ancora non c’era qualcosa, ma dove comunque questo qualcosa veniva richiamato (portato a sé). E così che inizia una storia di squarci nelle tele, di buchi, di riempimenti e di contorni: questa è la storia dei bordi ancora da riempire. Questa, più semplicemente, è la storia. Non che l’arte vada definita: l’ontologia, paradossalmente non c’entra, altrimenti il nuovo, la spinta di cui dicevo, sarebbe invece il precluso (no, questo non lo puoi fare - direbbero “loro”). In questa epoca di iperproduzione (che brutto termine, sembriamo al mercato) come si manifesta l’arte? Cosa rende noto a chi osserva che osserva un varco? La risposta, complicata, è questa (il catalogo è questo, direbbe qualcuno): quando l’attuale si allarga, aumenta la sua estensione semantica, diventa eterno - “vive eterno”, diceva Wittgenstein, “solo colui che vive nel presente”. Parafrasi: quando il varco trasforma il “poi” in “non poi” e allora vivi anche vite che non sono le tue (le vite degli animali, per esempio: che ne è delle vite non parlanti?). Il mondo diventa più grande, vedi le crisi ecologiche e le umanità del futuro, vedi un nuovo rapporto con l’alterità o con l’inconscio, intuisci i parametri di una forma di vita che vive nel corpo esteso di quella che chiamiamo “specie” dove il tutto è sempre superiore alla somma delle parti (ancora, ancora una volta, Aristotele). Non importa, o almeno non più, un’arte dell’ornamento: importa, o almeno per ciò che comporta, un’arte delle percezioni intellettuali e non più visive (o sensoriali in genere, non formalizziamoci). Attraverso i varchi, questi che possiamo chiamare “varchi del poi”, devo poter vedere l’eterno e capire. Capire cosa? Che la vita è una staffetta, che la nostra (di vita) è un segnaposto, e che l’obiettivo è sempre e comunque più grande: al di là delle parole e delle ragioni del momento c’è un sentiero, l’arte deve aspettarci laggiù. È il sentiero dell’unione dove la nostra mente superficiale ha diviso, è il sentiero del soggettile (come lo chiamava Derrida attraverso Artaud), ovvero di ciò che sta nel tra delle cose: il supporto, l’invisibile ma presente, il silenzio che intervalla i nostri “bla bla” che ci servono per sopravvivere. Si nasce urlando, si muore in silenzio: perché? Perché per prepararsi al superiore i mistici tacciono? Perché il senso della vita, delle cose tutte, si comprende allo svanire delle sue possibilità di formulazione? Semplice: perché oltre i limiti del linguaggio si arriva ai limiti del mondo.

Essere artisti significa essere in possesso dell’eterno: una misteriosa combinazione di fattori consente di situarsi nella mente di Dio, di annullare le convenzioni temporali, e infine di anticipare. Anticipazionismo, così mi piace chiamarlo, è guidare chi osserva verso un destino cosciente. Anticipare significa piegare lo spazio-tempo. In questa prospettiva l’arte diventa la verifica della filosofia ma anche, più importante e decisivo, la verifica della vita. Per questo l’artista è una forma di vita del tutto specifica che è impossibile scindere dal suo lavoro: il significato dell’artista coincide con il suo uso. Ho visto attraverso le cose, ci sono passato nel mezzo, ho avuto il privilegio di varcare l’oggi per il poi: in questo modo mi sono sentito ogni cosa, tutti i nomi della storia di Nietzsche non mi sono più sembrati i deliri di un matto, ho capito che a turno sono stato immigrato e colonizzatore, razzista e razziato, macellato e mangiato, femminile e maschile. Ho capito che la soluzione è la congiunzione e mai la disgiunzione: che l’arte è ciò che permette all’umanità, con innumerevoli di sforzi, di divenire animale e di godere del “loro” privilegio. Il privilegio dei privilegi, ovvero il meta-privilegio, che è la presenza a se stessi. “Ho”, avevo detto, ma avrei dovuto dire “abbiamo”, perché il varco se tiene è anche un varco sull’io. “Abbiamo”, ho cercato di sistemare il tiro, ma non avrei dovuto dire nulla: perché il varco, se tiene nel suo dopo, è anche un varco sui limiti dell’espressivo. Un testo, per un contesto artistico, del resto è già un controsenso: dove arriva l’occhio non arriva la mente (le “illusioni ottiche”, così le chiamiamo, sono in realtà un manifesto al fallimento della ragione). Il possibile non è il probabile, perché il possibile stupisce e non ha attese: ti sorprende, arriva da dietro, non chiede il permesso (non bussa, non fa “toc toc”). Se sapete guardare gli interstizi, pur stretti, che qui (qui dove?) vi si aprono tutto vi sembrerà lieve: rapido scorre il tempo dell’uomo, rapida la sua parabola, rapide le sue preoccupazioni, rapidissima la sua permanenza. Apri gli occhi, poi li chiudi, nel mezzo esisti: per continuare a guardare ti devi estendere, ovvero distendere sul tempo considerandolo uno spazio.

E non lo vedi, adesso dico, che il futuro si osserva al contrario?

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