sasha vinci


Testo di Giovanni Tidona

… se qui per “realtà” si intende la kantiana cosa in sé, la Ding an sich che, in quanto distinta dal fenomeno (testualmente: Erscheinung, “apparizione”), è per definizione preclusa alla conoscenza da parte del soggetto, il quale non può fare altro che limitarsi alla Ding für mich, cioè alla “cosa per me”, la cosa che mi appare, ciò che vedo e che tuttavia non coincide con la realtà noumenica, poiché quest’ultima può solo venire pensata. Ma stando così le cose, vorrebbe forse dire che l’opera di Sasha Vinci il suo messaggio – perché di messaggio manifestamente verbale si tratta, dunque almeno in questo caso nomina sunt consequentia rerum – debbano giocarsi all’interno di una problematica gnoseologica di derivazione kantiana? Non necessariamente, anche perché lo scollamento tra le percezioni del soggetto e la realtà esterna indipendente da esse non è affatto tema inedito nella riflessione filosofica moderna; almeno da quando questa, con Cartesio, ha aperto lo iato che separa la realtà dalle immagini che di essa si hanno. L’intento dell’opera di Sasha Vinci non è allora la riproposizione di una vexata quaestio epistemologica (peraltro risolta già a suo tempo dall’idealismo), quanto piuttosto la definizione di una sua ben precisa curvatura etica.
Prendendola abbastanza alla larga, è singolare come in una lingua naturale come l’italiano (ma ciò interessa anche altre idiomi) il campo semantico della visione coincida in molti punti con quello del pensare, dell’opinare, del credere o del comprendere: “contemplare” significa sia pensare in raccoglimento che osservare rapiti dalla bellezza di qualcosa, “la visione del mondo” è una particolare comprensione di esso, “essere dell’avviso” (dal latino visum, riconducibile a video) significa avere un particolare parere, l’espressione “non vedo perché” non significa altro che “non capisco perché”; come d’altronde “aver frainteso o travisato la realtà” equivale all’”averne un’immagine distorta”. Del resto i greci, i quali oltre ad essere noti per lo zoon politikon hanno anche tracciato per primi i connotati dell’homo videns, chiamavano “idea” e “immagine” con lo stesso nome (idea,eidos) e ritenevano che vedere e pensare fossero fondamentalmente la stessa attività, dal momento che nominavano entrambe con il medesimo termine di theorein, teorizzare ma anche e soprattutto theos-horao, visione del perfetto cioè del vero.
Che significa dunque alla luce di tutto ciò (ancora una coincidenza di visione e comprensione!) “Quello che vedo non è la realtà”? Plausibilmente, che in un epoca mediale di vuoti simulacri, di appiattimento della profondità ermeneutica (Jameson) e di fruizione consumistica delle immagini (nonché dei relativi, sottesi messaggi) il dubbio cartesiano o la critica kantiana dovrebbero essere trasferiti su un piano non più epistemologico (dato che della realtà fisica fuori di noi o della genuinità delle nostre percezioni di essa non v’è più motivo di dubitare), bensì etico. Detto in altri termini: il motto/opera di Sasha Vinci vuole far riflettere (cioè pensare e contemporaneamente rifrangere luce) sullo scollamento stabilitosi da una parte tra l’appiattita, quando non ideologicamente falsata, immagine del mondo veicolata dall’enorme e invadente apparato dei media, dell’industria culturale e dell’informazione (la quale per un artista visionario/creativo come Buñuel era da intendersi come uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse), e dall’altra quella che ancora dovrebbe essere recuperata come realtà, la quale però sembra ritrarsi sempre più lontana, sommersa da immagini inautentiche che hanno tradito l’originario, nobile mandato di farsi latrici di realtà e di verità.
Per questo motivo Sasha Vinci, in concomitanza alla Giornata del Contemporaneo promossa dalla AMACI, vorrebbe ripristinare il principio (in un questa accezione etica spesso dimenticato dalla contemporaneità) di estrema vicinanza, quasi identità, tra il vedere e il comprendere; lo fa paradossalmente, cioè attraverso la sua manifesta violazione; ma “Quello che vedo non è la realtà” potrebbe venire parafrasato in: “Ciò che vedi dovrebbe essere anche ciò che comprendi, dunque il vero; ma se non riesci a scorgere verità dietro ciò che vedi, allora l’immagine è falsata; e dunque per vedere/comprendere la realtà hai bisogno di altre, vere immagini”. Si tratta dunque di un appello al recupero del dimenticato valore euristico dell’immagine, funzione le cui vestigia sono ravvisabili sporadicamente sia negli usi della lingua che, molto più sistematicamente, nello strenuo tentativo dell’arte (quando essa vi riesca) di veicolare verità visive o visioni veritiere; ecco allora che dietro la critica o il rifiuto della mistificazione visiva a cui noi tutti siamo soggetti nella nostra quotidianità (“Quello che vedo non può essere la realtà”) si fa strada il tentativo di recuperare l’antico senso unitario dello theorein, il quale benché di antica estrazione è ancora attualissimo principio in un mondo contemporaneo che ha diviso la verità etica dell’immagine dal suo appiattimento a bene di consumo e la verità del mondo dalla menzogna che l’ha occultata.

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